Eravamo in macchina, fermi vicino al mare. Era una notte leggera, di pizze napoletane e birre fredde e racconti. Raccontavamo le curve lavanda dell’ultimo viaggio, i canyon verdoni che avevamo appena attraversato, i formaggi che avevamo mangiato con le mani. Con loro. Sempre con loro in macchina. E anche dopo, quando la radio non c’era ma c’eravamo noi stonati sulla spiaggia. Sempre con loro. Eravamo in piena sfolgorante incontenibile beatlesmania. Quello che ora è un amore profondo, un piacere che affonda dentro, era allora una gioiosa infatuazione. Una sensazione di ebbrezza e di rivelazione, della serie come ho fatto fino ad oggi a vivere senza di voi e come mai nessuno, dico nessuno, mi ha mai detto quanto eravate grandi. Quindi eravamo lì, finestrini abbassati e musica alta e credo di poter giurare che avevamo anche gli occhi socchiusi quando successe che io, inaspettatamente, la vidi.
Scendeva le scale stringendo un fazzoletto. Tutta tesa a poggiare solo la punta delle scarpe da ginnastica sulla moquette consumata. Niente talloni che fanno rumore. Niente talloni, che questa non è una discesa qualunque. Mentre scendeva lieve, le foto di famiglia alla parete la osservavano. La bambina che spegneva 5 candeline la guardava attonita. Suo padre stava per lasciare andare la grossa carpa che teneva per la coda e afferrare lei per il gomito. Sua madre sollevava il velo da sposa confusa da quello che stava osando la sua bambina. Lei si voltò dall’altra parte, sottrasse il volto ai volti, e rapidamente scese in cucina.
La lettera l’aveva lasciata sul letto disfatto. Io la vedevo. L’aveva scritta con un pennarello blu, di quelli indelebili. Le macchie blu sulle sue dita gliel’avrebbero ricordata per giorni. Un baleno d’infanzia: seconda elementare, i suoi disegni troppo saturi e gli sbuffetti di pennarello che le coloravano le mani fino ai polsi. Le parole giuste le aveva cercate sul diario per settimane. Sono troppo giovane per restare./ Ci sono cose che i vostri soldi non possono comprare. / Ciao, vado a vivere. Lori le aveva sbirciate al di sopra della sua spalla e aveva scosso la testa, con la solita aria di sufficienza. Non ci credeva, era chiaro. Nessuno c’avrebbe creduto. Quasi quasi non ci credeva neanche lei. Però era un mercoledì mattina alle cinque e lei lo stava facendo. È vero, le avevano dato la maggior parte della loro vita. Ma solo perché non avevano altro. È vero, li stava trattando senza alcun riguardo, ma non si può vivere pensando sempre agli altri. Suo padre russava. Lei stava lasciando casa e suo padre russava. Lo prese come una conferma, la riprova che ne aveva diritto, che niente era più legittimo di quello che stava facendo.
Aveva preso il suo zaino più grosso e l’aveva riempito fino a forzare la zip. Io l’avevo vista. Voleva che pesasse, che le segnasse le spalle come segnava il suo destino. Voleva che fosse faticoso e quindi ancora più eroico, spingersi in strada di notte, lasciare la sua casa, quel giorno. Non era lontana, in fondo, la statale. Una giornata di cammino e l’avrebbe raggiunta. Lì sarebbe saltata sul furgone di lui, fino al confine dello stato. Poi, sarebbe andata avanti da sola.
In cucina, il grosso zaino si appigliava alle cose. Mentre frugava del pane in cassetta, quello spazzava il bancone, sradicava i barattoli dal loro letto di radici nel marmo. Quello dello zucchero, in scivolata, era finito in area sale grosso. D’istinto, fece per riposizionarli al solito posto. E d’istinto ancora, prese a invertirli tutti. Lo zucchero al posto del sale grosso. Il caffè al posto del sale fino. Il riso al posto del pianto. E mentre li spostava, li scoperchiava per vedere in faccia le carte che scompigliava, l’ordine opaco che destabilizzava.
La maniglia della porta sul retro scivolò leggera quando la toccò, la sfiorò appena e quella si arrese subito, morbida. Fuori l’aria pungeva di freddo e di adrenalina. Era fiera, la notte, di trovarla lì. Io la vedevo. La salutava con un inchino, la tirava per la sciarpa, con dita di bruma. Vieni fuori, baby. Dai, che ci divertiamo. Il grosso zaino s’impigliò un’ultima volta alla maniglia. Quella che prima le aveva reso tutto facile, senza opporre il minimo cigolio al suo abbassare, ora sembrava trattenerla o almeno ci provava. Lei si fermò, l’orecchio all’interno e il cuore già fuori, scagliato nella notte e nell’avventura. Qualche secondo ancora di sospensione, di cuore tra i denti, di sedici anni purissimi e poi, finalmente, con uno scatto di reni, si districò. Non camminò sul vialetto ma sull’erba umida. Eppure sentiva il rumore dei suoi passi sulla ghiaia del vialetto, inconfondibile. Era dentro l’istante perfetto, nel più giovane capitolo della sua esistenza e si vedeva da fuori, al rallentatore, inquadrata dal basso.
Credeva che da un momento all’altro l’avrebbero riportata indietro, credeva che la porta si sarebbe spalancata di colpo e che un faro di luce si sarebbe acceso su di lei, intercettandola nella sua scena migliore, quella della fuga. Credeva che a un certo punto l’orizzonte si sarebbe contratto sui suoi passi, togliendo prospettiva al suo cammino. Ma non successe. Arrivò alla fine dell’isolato e poi ancora alla fine di quello successivo. Venerdì mattina alle nove era già lontana. Io la vedevo ed era bellissima.
Intenso, sentimentale, fresco e descrittivo.
In cucina, la vede anche il lettore. Ed è bellissimo.
Come sempre, pregevole.
Incantevole come ogni tuo scritto… si arriva in fondo con un unico pensiero: già finito?!?
… già finito? Già finito.