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Uh-uh! Scimmie, eroine e sentimenti esotici

Questo è un post-catena, ma scritto in totale libertà. Di quelli che da cosa nasce cosa. Comincia qualche giorno fa, durante un pranzo di famiglia. Non so come, parliamo dello zoo di Berlino e di come fosse gelidamente piastrellato il triste habitat ricostruito per il leone. E’ lì che sono saltate fuori per la prima volta le scimmie. In particolare, gli occhi incredibili dell’orangotango che mi guardava al di là del vetro. Scompostamente sdraiato a terra, vicinissimo al vetro, a pochi centimetri dalla mia faccia ipnotizzata. Occhi pieni di cose. Intraducibili, forse pure insondabili, ma irresistibili. M’ha tenuta lì a lungo, attaccata come un magnete a un frigo, al suo grattarsi distratto, al rossiccio del suo pelo, al suo non distogliere lo sguardo dal mio.
Intanto un gorilla poco distante sgranocchiava una mela, esplicitando attraverso il sentimento della noia tutta la sua umanità. Una mano lasciata a penzolare su una corda, l’altra a tenere la mela. E lo sguardo mobile, intorno. Era come osservare qualcuno al parco, che non sa di essere guardato. Un muratore in pausa pranzo. O una signora alla fermata del tram. Era emozionante, era come poggiare un polpastrello su un nervo vivo e accorgersi con un brivido di essere connessi attraverso di esso al mondo, in un modo che non si conosceva.

Il giorno dopo aver ritrovato dentro di me questo frammento, gironzolando su sky, eccole di nuovo: le scimmie. Un film-documentario Disney, tra l’altro già iniziato da un po’, sulla vita di questo branco di scimpanzé e su Oscar, un piccolino che perde la madre e viene adottato dal bisbetico leader del gruppo. Ecco il trailer (spegnete l’audio, però, che banalizza il film).

E anche qui, altra meraviglia. Nonostante la faccetta triste di Oscar fosse una citazione un po’ troppo sfacciata del musetto di Bambi (è pur sempre un produzione Disney), le scene della sua educazione sono speciali. Con questo maschio alfa che si lascia accostare da questo piccolo imitatore in cerca di guida, che prende a seguirlo fino a salire sulla sua schiena. Vado a letto, di nuovo, pensando alle scimmie.

La mattina dopo, non posso non chiedere a google di parlarmi ancora di loro. E lui mi presenta subito la supereroina dell’argomento. Jane Goodall. Una donna, un mito. Una vita che sembra inventata da un grande scrittore di eroine femminili. Un volto e un corpo, anche, da protagonista. Tra Meryl Streep e Ingrid Bergman. Non so se mi spiego.

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Jane, che, nel 1960, a 26 anni, così come alcuni decidono di andare a Formentera o di tatuarsi un tribale sulla bassa schiena, se ne va a Gombe, attuale Tanzania, a studiare gli scimpanzé da vicino. In un modo mai fatto prima, vivendo accanto a loro tutto il tempo. Osservandoli, dando loro dei nomi, comprendendo l’intensità delle loro relazioni.

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Ci va senza esperienza, senza strategia. Diventa la più importante studiosa di primati al mondo. La sua scoperta che l’homo sapiens non è l’unico a saper fabbricare degli utensili scuote tutto il mondo accademico. E lei non ha ancora nemmeno una laurea. Ci va con una tenda, qualche piatto di latta, una tazza senza manico, un binocolo scadente, un cuoco africano e, incredibile, sua madre. Ve la immaginate una vecchia signora inglese in una foresta come quella, negli anni Sessanta, che accompagna una figlia che vuole stare con gli scimpanzé? E’ un altro dei passaggi più autenticamente letterari dell’incredibile vita di Jane, che a studiare gli scimpanzé di Gombe ci resterà 50 anni. Di seguito, potete vederla per brevi cinque minuti e 55, sufficienti per innamorarvi di lei, degli scimpanzé e delle imprese mai provate prima, oltre che – se mai ce ne fosse bisogno – della irripetibile luce degli anni Sessanta. Qui, invece, saprete di più sul suo impegno per la tutela della specie e dell’ambiente.

E comunque io a 26 anni io ero su un set di provincia, a scenografare ambienti improbabili per una fiction altrettanto improbabile e a cercare di dare un senso alla mia fresca laurea. Questo abisso, sempre, tra la mia vita – onesta, felice ma pur sempre comune – e  quella di persone che hanno osato fare cose coraggiose, mai concepite prima e anche un po’ folli, non smette di provocarmi un tuffo al cuore. Credo di soffrire di una forma strana di esotismo. Molto di ciò che è lontano (nello spazio, nel tempo, nel modello sociale di riferimento), produce in me una fascinazione irrazionale ed eccitante.
In più, continuo a essere curiosa. Proprio come una scimmia.

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woodstock, le banche e la supercazzola emozionale

Stavolta la questione è di sostanza, non di stile. Di contenuto proprio, non di forma. E si riferisce all’ultimo spot di Fineco. Ma anche a quello di Ing Direct. Guardateveli. Ci vediamo più giù.

Non so voi ma io mi sento velatamente ingannata. Dai, paragonare una banca al gesto di respirare. E tirar dentro Woodstock, poi, veramente un colpo basso per tutti coloro che hanno anche solo portato gli jeans a zampa una volta nella vita. Della serie: ora che la gente non si fida più di noi, come facciamo a vendergli i nostri conti correnti? Ma sì, raccontiamogli che il nostro conto è peace and love, che è rivoluzionario come l’LSD, che la finanza è controcultura. E che loro, proprio loro, possono ‘prendere parte al cambiamento’ scegliendo noi per il loro conto morente corrente.

In fondo i sessantenni di oggi sono i capelloni di allora ed ecco che il vintage va forte pure in pubblicità. E’ tutto un citare di scene che furono. Ragazzini con magliettine a righe, zingarate in spiaggia, telefoni a gettoni, volkswagen westfalia come se piovesse. Tutto impacchettato dentro una luce settantina. Perché così le immagini ci sembrano proprio uscite dagli album di casa nostra. Sfocate, un po’ virate verso il giallo, proprio come quelle che fabbrica Instagram.

Fineco l’ha fatta meno esplicita, ma non più etica. Semplice come respirare. E poi via con un montaggio gigione fino all’ultima fiorettata subliminale, il bell’uomo che emerge dall’acqua, che fa subito balenare nella mente l’equazione Fineco = boccata d’ossigeno. Che di questi tempi, in cui nessuno dorme più tanto tranquillo, significa proprio essere infidi. Significa che me ne sto sul divano, dopo una giornata mortifera in ufficio, dopo aver trovato nella cassetta bollette, tristi cataloghi di Mondo Convenienza e pubblicità dei finanziamenti e mi ritrovo l’immagine di questo che tira sto sospirone di sollievo, con la luce del tramonto che riverbera tutto intorno e che mi fa pure pensare all’estate, che non guasta mai.

Ad essere fatta bene è fatta bene, manco a dirlo. La coppia matura borghese che spegne le candeline (metti al sicuro i risparmi di una vita). Il giovane boxer che suda sul sacco (per te, che sei uno che nella vita combatte). La ragazza che alita sul vetro bagnato di pioggia (con noi sei protetto). Bellissime donne affatto affaticate dalle doglie (facciamo nascere una cosa bella). Il suonatore di sax scalzo (?). E su quest’immagine, signori, mi fermo.

Mi pare troppo, ecco. A me la pubblicità piace, sono una copy e si può dire che io ci campi. Quando è divertimento, trovata, provocazione ma anche semplice e onesta promozione la trovo una forma di comunicazione veramente stimolante, direi ormai imprescindibile. Ma questo è andare oltre. E’ forzare il senso. E’ seminare robaccia nell’inconscio delle persone. E’ fare alla gente una supercazzola emozionale senza scrupoli.
In una parola, per me, è non è buona pubblicità.

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del perché mondo convenienza non è in grado di fare un catalogo decente

Se state leggendo questo post, è capitato anche a voi. Scendete di sotto e nella cassetta della posta c’è il solito cataloghino, formato paraculo, copertina triste, logo arcinoto. Lo prendete e ve lo portate a casa. Poi capita che, nel giro di qualche giorno, provate a sfogliarlo. Io, ogni volta, ci ricasco. Mi dico, saranno cresciuti, avranno imparato. E invece no, non ce la possono fare. Il catalogo è sempre bruttissimo – che vabbè che la loro forza è il prezzo ma un arredatore lo potrebbero pure contattà.

Dopo anni in cui ci hanno deliziato con il bambino con il mestolo e il cappello da cuoco – che vabbè la comunicazione ossessiva coordinata, ma non vuol dire che ce devi propinà sto pupo a ogni pagina del catalogo – adesso sono passati a uno stile più sobrio, minimale, ancora più porello. Ste cucine vuote, dove non si scorgono tracce di vita, ste camere da letto abbandonate, artificiali, sti saloni da depressione. Poi dicono che i matrimoni si sfasciano la sera davanti alla tv. E le camerette per bambini, ne vogliamo parlare? Perchè dovrei far dormire mio figlio in un mondo pastello, rigorosamente bicolore, dove anche il lenzuolino è coordinato con le cornicette e le scatole messe a bella posta sulle mensoline?

E poi il copywriting. Già lo sappiamo che ti chiami mondo convenienza, c’è bisogno che sotto al payoff (che ribadisce lo stesso concetto) ci metti ‘ancora più conveniente’? Abbiamo capito!

Ma il massimo lo raggiungono a pagina 7. Guardo bene e sul bancone di una cucina, chi ti trovo? BÄRBAR, un vassoio ikea.

No, non può essere. Ti pare che mettono un accessorio di un loro competitor nel loro catalogo? Allora lo sapete con chi vi dividete il mercato? Allora ce l’avete fatta una capatina al cubo blu e giallo. E allora, come fate a non notare l’abisso estetico che separa il loro catalogo dal vostro? Non lo vedete il loro come è pulsante, come è vivace, come è vero (a parte le trentacinquenni che cucinano con i tre figli, che però quella è questione di differenze tra welfare svedese e disperazioni occupazionali italiane). Non sapete che loro ne fanno uno all’anno di catalogo (non settantacinque) e la gente se lo tiene a casa e lo risfoglia con piacere proprio perché è bello, mette allegria e stimola la fantasia? Dico, ma non vi scatta un po’ di orgoglio aziendale? Non avete almeno un po’ a cuore il valore supremo della Bellezza? (questo è troppo, lo so)

Mi fate venire voglia di inaugurare una rubrica sulle occasioni di bellezza mancate. Mondo convenienza re indiscusso della categoria. E sotto tanti tanti altri. I ristoranti con le tovaglie damascate salmone, per esempio. O i bar con i tavolini dell’algida. Il mondo ne ha bisogno, non trovate?

Bene, adesso che mi sono alienata per sempre ogni possibilità di lavorare come copy per mondo convenienza senza, tra l’altro, avere ottenuto manco un buono sconto da 5 euro da ikea, vi saluto. Erano mesi che ve lo volevo dire.


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bernardo mon amour

Lunedì scorso ho ascoltato bernardo bertolucci su rai tre, a che tempo che fa. Un portento. Un esempio. Una fonte di sospiri che non vi dico. Forse è per questo che il presente post da una settimana attende di essere concluso sul mio desktop, incapace io di cucire insieme i tanti spunti di riflessione che m’ha donato. Se ve lo siete perso, vi consiglio proprio di guardarvelo subito, qui sotto. Se non ve lo siete perso, sapete a cosa mi riferisco quando dico che quest’uomo ha una dignità, una passione e una vitalità che impressionano ed emozionano insieme, anche grazie alla generosità con cui si racconta.

Ad esempio c’è questa cosa della rosa bianca. Di suo padre poeta e di lui bambino che quelle poesie sono le prime cose che legge, così, in casa. Provate intanto a focalizzare questa immagine. Vostro padre scrive poesie. Non affetta salumi. Non vende polizze assicurative. Non assembla motori. Ma scrive poesie. Significa che voi siete piccoli e lo vedete in casa che guarda alla finestra e poi si appunta delle frasi su un quadernino. Poi vi sorride – poco perché i poeti sono tristi – e poi torna alle sudate carte. Non è una cosa da poco, credo. Ti dà un senso di legittimazione, credo. Ti fa sentire autorizzato a vivere d’arte, come fosse una cosa normale. Un mestiere come un altro, non una scelta folle né una posa cialtrona. Intanto vai ad aprire la porta, che c’è Pierpaolo Pasolini. Intanto accogli nel tuo salotto il più grande intellettuale italiano del novecento e siediti con lui, tu, bernardo adolescente.

E comunque bernardo legge questa poesia su una rosa bianca scritta da suo padre e questa rosa bianca è sua madre e questa rosa bianca sta giusto in giardino, in un gioco di prossimità che dalla poesia si specchia nella realtà che nutre la poesia che si rimescola con la realtà. Lo capisce da ragazzino che vita e arte sono la stessa cosa. Che una si nutre dell’altra e che la quotidianità è fatta di piccoli momenti divini. Anche questa non è una verità da poco e bernardo è capace di farne tesoro. Di farne quello sguardo lì. Quello che ha ancora oggi, che brilla ancora a settant’anni, sulla ‘sedia elettrica’ come lui la chiama. Non tutti sono capaci. Di avere delle grandi occasioni e di non gettarle via. Di fare di un’infanzia fortunata una vita piena. Di riconoscere e coltivare il proprio talento con tanta energia, conservando l’entusiasmo di un ragazzo.

Questo sguardo giovane non sfugge a nessuno, figuratevi agli autori di fazio, che a un certo punto gli chiede proprio di quest’affinità elettiva, tra bernardo e l’adolescenza. È un feeling naturale, un agio spontaneo e reciproco. Perché lui è ancora uno di loro, uno che guarda all’età adulta con sospetto. Perché in quel momento della vita tutto è possibile. Tutto può ancora avvenire. Come negli anni sessanta e settanta, aggiungo io. Quando c’era tutto da abbattere, da trasgredire, da riformare, conferma lui.

Il mio livello di condivisione è al suo massimo storico. Peccato non possa vedermi mentre mi agito sul mio divano giallo. Che grandi verità, bernardo, mi regali questa sera. Sì, lo so, sto mitizzando. Tendo a farlo con alcune persone. E alcune epoche anche. Il fatto è che penso sia importante – e sacrosanto anche – continuare a guardare in alto.

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are you sure?

In macchina all’estero, da sola. No, non ho paura. Si, mi ricordo la strada per tornare all’hotel. No, non è un problema. Sì, faccio presto. Voi state pure qui che io esco a prendere un po’ d’aria. E invece poi la strada non la ritrovo. Non riesco a ricordare dove ho lasciato la macchina. Era un parcheggio grande, di quelli a pagamento. Credevo di aver svoltato a destra ma no. Sarà più avanti. Possibile che sia andata così lontano? Era un multipiano, come me. Tanti spazi, tanti livelli.

Va bene, chiedo. Chiedo informazioni al primo che passa. E passa lui. Bellissimo, di una giovinezza commovente, quasi dolorosa, imparagonabile a nient’altro che a sé stessa. Excuse me, i’m looking for a big parking. It must be nearby…

Mi sorride. È luminoso. Non fuma. I suoi denti sono bianco latte, brillanti e regolari. Oh yes, it’s there. Ma poi non è sicuro, muove i suoi occhi chiari sull’orizzonte ma non ricorda. Fa qualche passo, mi dice Please, wait a moment here. Aspetto, tanto che può succedere? Sento caldo, è l’estate più rovente del secolo per questa città. Aspettavano me. Mi siedo su una panchina di ferro, le cosce scottano contro il metallo bollente. Le sollevo d’istinto in un riflesso protettivo. Un riflesso protettivo. Lui si è allontanato ma la sua sagoma è sempre qui davanti agli occhi.

È magro, dev’essere uno sportivo, anche se non ha il classico corpo dell’atleta. Dalla t-shirt si intuisce un dorso asciutto, leggero. Ha i capelli corti, di un biondo strano, che ho già visto in questa città. Torna. Sorride e dice che Sorry, i couldn’t find it. Non fa niente ragazzo, lascia perdere. Chiederò a qualcun altro. A quella signora lì per esempio, laggiù con la spesa. Sto per dirlo. Lui si acciglia, contrae le sopracciglia chiare, piccole rughe glabellari si formano e si distendono immediatamente, appena dice che mi accompagnerà lui. Come with me. E mi tocca lievemente una spalla come a rassicurarmi, a invitarmi, a conturbarmi.

Camminiamo, osservo la sua nuca, il modo pittorico in cui il sole dipinge un fugace riflesso ramato tra i suoi capelli. Devono essere morbidi. Ogni tanto si ferma e si guarda intorno. Io dietro, radiocomandata. Ogni tanto lui si volta e mi mostra i suoi incisivi perfetti, io lo seguo fissandogli le spalle magre nella t-shirt azzurra, la schiena diritta che termina nelle tasche dei pantaloni corti. Camminiamo dieci minuti – o dieci ore – e non c’è traccia del mio parcheggio. Non riconosco nulla, non ho più punti di riferimento. Non avevo una borsa con me? Non avevo comprato qualcosa? Per quale ragione sono uscita allora? Le chiavi della macchina ce le ho, non le ho perse. What? No, there wasn’t a fountain. O forse c’era? Si ferma a bere a una fontanella, si china. I pantaloncini si sollevano a scoprire i quadricipiti asciutti. Guardo altrove, un bancomat, una lavanderia a gettoni, un cane che fa la pipì. Mi sorride di nuovo. Fa caldo. Aren’t you thirsty? Certo che sono assetata. Non sai quanto. Bevo, i miei sandali scamosciati si punteggiano di gocce scure. Lui si asciuga la bocca con il dorso della mano. Adesso gli dico di lasciar perdere, prendo un taxi e torno a casa. Userò il satellitare, recupererò l’auto con le coordinate e basta.

Mi guarda, non dice nulla. Forse sa che non possiamo. Forse non ha nulla da dire. Da uno zaino tira fuori una mela. Rossa. Me la porge. Cos’è, un episodio della genesi? No, grazie. Per carità. Così la addenta lui, do you mind if we stop for a while? It’s so hot. No, non mi dispiace. Basta che è solo un poco. Ci poggiamo con le schiene contro un albero, sotto le sue fronde lussureggianti c’è l’unica ombra della strada. Poco più avanti ci sarebbe un lounge bar ma restiamo lì. La luce filtra attraverso le foglie. Mi viene in mente un quadro di Renoir, che ho visto con M. a Parigi. La mela dev’essere succosa. Fresca e succosa. Deve sapere di buono e d’estate. E di questa città che nasconde i parcheggi a pagamento tra i palazzi. Da dove vengo? Da lontano, da prima, da altrove. Ciao. Devo andare. Devo proprio andare. E sono tutte così belle le donne che vengono da lì? Donne. Ha detto donne. Non ragazze. Donne. È differente women da girls. Mi spolvero il tailleur e basta. Cosa devo dire? La mela è finita. Torna alla fontanella a bagnarsi il viso. Minuscole perle di sole scintillano sul suo mento, sulle labbra. Andiamo. Dove? Ancora? Lo seguo.

Pochi metri e svolta a destra. L’ho già visto quel ristorante con i tavoli all’aperto? Look! Mi indica un grande cartellone che ci avvisa che tra 500 metri c’è un parcheggio, il mio parcheggio. Sorride. Ancora quegli incisivi di diamante. Si aspetta qualcosa da me. Grazie, gli dico. Thank you so much. Adesso vai. Per favore. Le vedi le chiavi qui, che tintinnano? Lo vedi il portachiavi a forma di cuore? Lo vedi? Ma no, mi dà una pacca sulla spalla. Troppo forte, se ne accorge subito. Allora ci aggiunge una carezza lieve, sempre sulla spalla ma più verso il collo, sulla pelle nuda. Camminiamo ancora, il marciapiede è largo e ombreggiato. Il cubo grigio del parcheggio è vicino, posso già riconoscere le sbarre gialle che si sollevano e si abbassano. Dove andrò adesso? Me lo chiede quando manca ormai pochissimo all’ingresso. La biglietteria automatica per i pagamenti è giusto a pochi passi. Home. I’ll go home. Oh. Tace un poco. Chiude gli occhi. Li riapre addosso a me. Are you sure?

Mi viene da ridere. E da piangere. Ciao, lo saluto con la mano. Vado via velocemente. Poi mi volto, gli dico thank you con le labbra. Lui resta fermo a guardarmi mentre mi avvicino alla biglietteria automatica. Si poggia alla parete di mattoni rossa. Dev’essere rovente. Il suo piede è abbronzato. Si infila le mani in tasca. 29 corone e settanta. No, non la voglio la ricevuta. Dammi solo quel fottuto bigliettino per allontanarmi da qui. Dal vetro del box lo vedo ancora. Sta fermo e guarda verso il garage. Verso di me. La macchina sta al secondo livello, questo me lo ricordo. Area B1, subito accanto all’ascensore. È fresca, ma io no. È pulita, ma io no. Mi aggrappo al sedile del passeggero mentre mi volto per fare retromarcia. Il seggiolino di L. e dentro Ondina, il suo pesciolino fuxia.

Pochi secondi e sono fuori. La radio è altissima. Non sento niente mentre scendo la rampa a chiocciola. Mi gira la testa. Il caldo, certo. Esco da dove sono entrata e lui è ancora lì. Mi saluta con la mano. È di fronte a me, sul ciglio del marciapiede, e le sue labbra mi dedicano parole che non saprò mai.